Jules

Jules

lunedì 13 aprile 2015

Ecobus


C’è chi mi ricorda un ecobus

in giro per Milano:


silenzioso e pericoloso.

C’è chi mi ricorda una donzella milanese


che pedala in mezzo al traffico

come fosse Heidi in un campo a maggese


del tutto ignara del pericolo imminente.

Ancora abituata ai motori anni novanta:


rumorosi e rassicuranti,

assordanti annunciatori del mostro in arrivo.

Can che non abbaia morde forte

e non solo:


ti sbrana, ma sotto anestesia,


in attesa di un’altra donzella

tanto scema da farsi condire via.

giovedì 2 aprile 2015

Mountain bike


Era la sua mountain bike.
Ha un alto potenziale

ma a volte bassa resa,

potrebbe condurti ovunque
ma ha bisogno di cure

è essenziale,
non puoi mettere una marcia qualunque.

Quando lui se ne accorgeva
la lasciava in attesa

in un angolino.
Per un po’ usava un triciclo

come se tornasse bambino.
Basso potenziale, media resa,

ma lei ormai si è arresa:
la mountain bike non è per tutti

e ha smesso di cercare un’intesa.

sabato 28 marzo 2015

Telepass


La mia mente è una stazione di servizio

un’autostrada,  la mia vita che scorre,
già anni fa’ oltrepassai il casello d’inizio.

A volte mi prendo del tempo
meditando sulla corsia di destra,

altre prendo la rincorsa
slittando sulla quella di sinistra.

Il sorpasso è solo un’illusione
giungeremo tutti a una destinazione.

Alla stazione di servizio trovo nutrimento
ma a volte la benzina scorre a tradimento:

alcune zone del cervello prendono fuoco.
Ciò che ci nutre fa spesso il doppio gioco.

martedì 17 marzo 2015

L'era glaciale

Alcuni luoghi divengono carichi di significato,
acquistano maggiore peso specifico.
L'atmosfera si fa più palpabile
l'aria inspirata è carica di emozioni,
emozioni legate ad un' immagine.
I profumi percepiti in quei momenti
raccolti in uno speciale file della mente,
non appena avvertiti
abbelliranno il viso di maliziosi sorrisi.

Poi un giorno ritorni in quello stesso luogo,
dopo tanto tempo.
L'atmosfera è cambiata
è leggera, evanescente, il peso specifico
azzerato.
Quei profumi in passato davano un senso di vertigine
ora sono banalmente familiari.
Il file che li conteneva è stato ripulito,
congelato
in attesa di un altro luogo
con il potere di risvegliarlo,
intiepidirlo e arricchirlo di nuovi elementi.

Nessuno sa dove nessuno sa quando
i nostri sensi abbasseranno le proprie difese,
di nuovo
concedendosi il lusso di essere prede.
L'era glaciale è solo un freddo intervallo.

lunedì 10 marzo 2014

Crocerossine sadiche, ubriachi e balli di gruppo



Ho visto gente per cui il massimo della trasgressione è dare feste a base di Fanta, Sprite e Coca Cola. Per loro scrivere i nomi col pennarello indelebile sui bicchieri di plastica è un’emozione unica.  Ho visto gente per cui il massimo del divertimento è bere fino a stare male, per poi umiliarsi dicendo e facendo cose che il giorno dopo si ricorderanno solo tramite i racconti degli amici. Le amnesie da alcool piano piano li trasformeranno in persone divise a metà:  una parte vive le follie della sbronza, l’altra i sensi di colpa del giorno dopo, osservando gli occhi che diventano sempre più gonfi e il viso che diventa sempre più sfatto. Gli amici, in apparenza solidali e condiscendenti, sono in realtà soddisfatti di vedere qualcuno andare alla deriva, ma nonostante il malato giovamento che ne traggono, incominceranno a sparlare loro dietro etichettandoli come persone incapaci di gestirsi. Dentro di se pensano: “ Meno male che esiste qualcuno così ingenuamente confuso e autodistruttivo…come farei ad alimentare il mio ego di crocerossina salvatrice se non ci fosse?”  Non so chi sia più disperato:  l’ubriacone amante degli eccessi o il sobrio finto salvatore, che in realtà riesce a mantenere un buon livello di autostima, solo osservando qualcuno a cui stanno pian piano cadendo le braghe? L’ubriacone almeno decide di non essere completamente lucido nel suo disagio, in lui vi è la consapevolezza inconscia di star passando una fase, e che in quanto tale, in un modo o nell’altro avrà una fine. Il sobrio sadico invece è uno che ha gettato la spugna, e ha accettato la sua disperazione come normale condizione quotidiana. Accipicchia. Ho anche visto gente per cui il massimo della vita è fare il karaoke e lanciarsi in balli di gruppo, come pensionati annoiati in un villaggio turistico che vedono un libro di Bukowski, un viaggio avventuroso, della musica, dei giochi erotici o una sincera e sana chicchierata con un amico come qualcosa da cui scappare, qualcosa per cui non vale la pena di rischiare, qualcosa di sporco, umiliante, che rovina la reputazione, qualcosa carico di peccato, originante milioni di sensi di colpa. "Ragazzi…stasera balli di gruppo…su su che ci sfoghiamo un po'! Dai Ragazzi, venite che c’è anche il Don!!" Poi pizzata tutti insieme parlando di quanto sarebbe bello se aprisse un punto vendita Kiko sotto casa, o del fidanzato che dedica troppo tempo al proprio lavoro, o di sogni utopici inventati al momento per evitare noia e silenzi imbarazzanti. Ho visto gente per cui il massimo della vita è soffocare i propri istinti, mentire a se stessi a favore della facciata da mantenere, evitare di ascoltare i propri veri bisogni per paura di essere considerati persone poco in gamba, fino a diventare uno, nessuno e centomila, senza certezze, senza sicurezze personali, solo una marea di conferme o rifiuti provenienti dall’esterno. Dentro di sé, il deserto del Sahara. Ho visto gente che per non essere giudicata ha smesso di parlare di sé, provocando un clima di omertà fra le persone delle loro cerchie, e conseguenti pettegolezzi riguardo i numerosi taboo che paradossalmente TUTTI notano. E' paragonabile all'utilizzo del centro di una piazza come nascondiglio, convincendosi che gli tutti gli altri siano diventati improvvisamente ciechi o il proprio corpo invisibile. Ho visto gente lasciarsi andare, convinta di non essere all’altezza di qualcosa pur essendolo, per poi lamentarsi delle conseguenze dell’essersi lasciata andare reagendo lasciandosi andare ancora di più.  Poi ho visto gente rendersi conto di stare vivendo tutto questo, e lottare ogni giorno per uscirne. La consapevolezza è un’arma a doppio taglio: se ci si gira attorno diventa la causa del malessere più nero, se spinge al cambiamento ne diviene la cura. Due facce della stessa sottilissima medaglia. Gente, aiuto! Si salvi chi può!

martedì 11 febbraio 2014

L'ultima volta...l'ennesima!



Lunedì scorso, 3 febbraio 2014, è stato l’ultimo giorno del corso di scrittura creativa tenuto dal professore Cosimo Argentina. E’ stata un’esperienza che mi ha arricchita molto ed è andata al di là delle mie aspettative. Non avevo mai frequentato un corso di questo tipo prima, quindi accettai di iscrivermi a scatola chiusa, in fondo sentivo che di sicuro non avrei avuto nulla da perdere, semmai il contrario. Inizialmente fantasticai su come potesse svolgersi una lezione tipo. Immaginai molte spiegazioni teoriche, utili certo, ma che avrebbero tolto la possibilità ad ogni singolo iscritto di farsi conoscere per come si diletta concretamente, nell’intimità della propria stanza con penna, foglio o portatile. Con mia grande sorpresa, nella realtà dei fatti non è andata proprio così. Le lezioni sono state per me quasi delle sedute psicoanalitiche di gruppo, nelle quali tutti hanno giocato a carte scoperte, e hanno condiviso le proprie evacuazioni su carta senza imbarazzo e senza paura del giudizio dell’altro. Cosimo è riuscito a mettere in luce le qualità, lo stile e i difetti di ognuno di noi facendo critiche più che costruttive. Insomma, se qualcuno mi chiedesse consiglio su un corso di scrittura creativa saprei di certo dove indirizzarli, ad occhi chiusi. Per definire questo percorso in due parole mi viene in mente un ossimoro:  “Anarchia ordinata”: ognuno ha sempre avuto la libertà di dire e scrivere ciò che preferiva, e come succede in rari casi, questa volta il libero arbitrio di ciascuno non ha mai cozzato con quello degli altri, anzi, sono sempre andati tutti a braccetto, a passo di danza, a ritmo di can can oserei dire. Ma visto che quest’esperienza è ormai finita e ci rimane solo l’immancabile pizzata finale alla quale (stranamente devo ammetterlo) parteciperò volentieri,  ho riflettuto sulla fine di qualsiasi percorso in generale, esperienza che nel corso delle nostre vite ci ritroviamo spesso ad affrontare. Nel caso in cui non vedessimo l’ora che una certa esperienza finisca, allora il problema non si porrebbe nemmeno. La sua conclusione in questo caso non può che corrispondere ad un senso di liberazione da una zavorra, che fungeva solo da inutile ingombro. Se invece al contrario è stato qualcosa di positivo e che ci ha particolarmente colpiti, affrontarne la fine potrebbe essere anche un bel boccone amaro e doloroso da buttar giù, o se vogliamo essere meno melodrammatici, potrebbe lasciarci quel tipico senso di agrodolce malinconia, quel misto di gioia, tristezza e smarrimento che spiazza sempre un po’. C’è da dire che per fortuna molte di queste “ultime volte” non le viviamo consapevolmente. Apprenderemo la lieta novella solo successivamente, vivendo, e di sicuro il tutto sarà molto meno traumatico rispetto ad una fine vissuta in maniera consapevole. Ad esempio quando mi ritrovo a leggere l’ultima facciata di un libro che ho amato, provo sempre uno strano vuoto allo stomaco che mi lascia per qualche minuto col fiato sospeso, e in un certo senso mi commuove. Il giorno in cui la mia migliore amica di infanzia mi disse che si sarebbe trasferita a breve in Sicilia, mi resi conto che un percorso stava per concludersi, e provai un senso di smarrimento improvviso, una pericolosa perdita di equilibrio, come in preda ad un attacco di labirintite acuta sulle scale a chiocciola della Sagrada Familia. Il giorno in cui il mio terapeuta mi disse che potevo continuare a “camminare” da sola e che addirittura avrei potuto aiutare io stesso qualcun altro, mi sentii commossa, grata, gioiosa, spaventata, orgogliosa e smarrita allo stesso tempo. Ero anche triste perché adoravo quell’ora passata con lui, ne avrei di sicuro sentito la mancanza. Al momento dell’annuncio le lacrime agli occhi sono state inevitabili. Per non sembrare troppo patetica ho dovuto aspettare la fine della seduta per tornare nella mia auto e scoppiare in un pianto liberatorio. Oppure il giorno del rientro da un viaggio di cui ho goduto ogni singolo istante o quasi. Di norma appena varcata la soglia di casa tutto mi appare uguale ma allo stesso tempo molto diverso da come lo avevo lasciato. Come se tutto fosse filtrato da ciò che di nuovo ho visto, annusato, assaporato e udito. Poi senza che me ne accorga, quella particolare lente incomincia a consumarsi e dopo qualche giorno si stacca del tutto, come un cordone ombelicale. Ciò che ne rimane è solo il ricordo, un’ esperienza in più da inserire nel curriculum da presentare a me stessa.

martedì 4 febbraio 2014

Tragimanicomico



“Sai? Mi capita di pensare a quanto sarebbe bello essere malati di testa, anche solo per un giorno…” avrei voluto dire a Max, uno dei ricoverati del centro psicosociale che da quasi un anno frequentavo ogni giovedì. Lo vedevo quasi ogni volta, seduto su una panchina, fumando una sigaretta. Sembrava vagare senza meta, senza obiettivi, senza progetti e senza ansie. Il suo sguardo era perso, ma privo di quell’alone di drammatico pessimismo che spesso noto su molti volti in metropolitana. Sembrava quasi che in quell’istante immaginasse di trovarsi a piedi scalzi su un bagnasciuga, contando le stelle cadenti la notte di S.Lorenzo. Ogni volta che lo incrociavo mi salutava con un ampio sorriso: “Salve signorina, come sta?” Io avrei voluto rispondere: “Molto peggio di lei mi sa, visto che sono a conoscenza di tutti i particolari di ogni metastasi che macchia la mia potenziale serenità” ma mi sono sempre limitata ad un semplice: “Bene, grazie, spero stia passando una bella giornata!” Che forte che era Max, riusciva sempre a strapparmi un sorriso, qualunque fosse il mio stato d’animo. La sua lungimiranza gli permetteva al massimo di immaginare che da lì a due minuti avrebbe pestato il mozzicone con la scarpa. Lui non viveva alla giornata, bensì alla mezz’ora, se andava bene. Chissà com’era essere nei suoi panni per un giorno intero. Chissà cosa avrebbe fatto una volta finita quella sigaretta o a cosa pensava prima di addormentarsi. So che ragionandoci anche solo per un attimo appare come un’assurdità, ma devo proprio ammettere che più di una volta l’ho invidiato. Che bello sarebbe essere dichiarati incapaci di intendere e di volere, beccarsi una bella interdizione, non essere più responsabili delle proprie scelte e delle proprie azioni. Nessuno che ti viene a rompere le palle per le tue eventuali negligenze. Aaaah…che liberazione! Tanto saresti comunque solo, esiliato in un tuo mondo, mentre ognuno giustamente è intendo a pensare ai propri cazzi e controcazzi. I ricoverati vivono esattamente questa stessa condizione, ma alla luce del sole. Non ci sono studio, lavoro e aperitivi che tengano. Sei lì, completamente privo delle redini che a noi “liberi” e “sani” vengono concesse per farci sopportare meglio il peso della quotidianeità, e per farci sentire talvolta membri dello stesso equipaggio. Mentre tutto ciò si stava verificando (come anche ora e per sempre) io facevo il mio ingresso in quel tetro cortile, che sembrava nato da una colata di cemento non lavorata. La fiera del pressapochismo insomma. Le auto del personale erano parcheggiate in maniera approssimativa lungo un vialetto approssimativo percorso da gente altrettanto approssimativa. Mamma mia, proprio un bel quadretto. Che tristezza quel luogo, così squallido nella sua impersonalità, non rispecchiava affatto gli individui che lo popolavano. Ricoverati e pazienti in libertà vigilata, tutti vi entravano carichi del proprio vissuto sul groppone, intenti a mostrarlo e a stenderlo cercando di stirare ogni singola piega che andava a formarsi agli angoli. Un giorno ero in attesa in quel solito atrio, non sapendo cosa fare incominciai a concetrare la mia attenzione sull’odore che aleggiava nell’aria. Si trattava di sicuro del detergente per i pavimenti. Adoravo quel profumo. Avevo quasi voglia di mettermi a gattoni per poter verificarne la fonte annusando direttamente a terra.  “In questo posto nessuno rimarrebbe perplesso più di tanto”, pensai. Dopo aver abbandonato quest’idea bizzarra, decisi di guardarmi attorno e in fondo al corridoio notai una porta a vetri. Andai verso quella direzione, ero troppo curiosa di scoprire cosa ci fosse al di là di essa e colta da un forte senso di stupore, vidi un giardino ben curato, di un verde intenso. Era del tutto imparagonabile al grigiore sconfinato del cortile principale, quello che tutti potevano intravedere anche dall’esterno. Fu allora che la realtà delle cose mi fu molto più chiara. In realtà tutta la struttura del centro rispecchiava esattamente le persone che lo frequentavano. All’inizio vi si entra con un’aria cupa, confusa, oberati di qualcosa che non si sa bene cosa sia, ma che soffoca la propria vera natura. In quel momento ci si presenta come individui impersonali o tristi o incompleti, o un mix di tutto questo, proprio come il centro nella sua facciata. Poi, una volta scavata a fondo la propria interiorità, si incomincia ad intravedere il suo aspetto unico, curato, consapevole e speranzoso. Proprio come è successo a me perlustrando il centro più nel dettaglio. I primi tempi, non avrei mai immaginato che nella parte posteriore ci potesse essere un giardino così ben tenuto. Appena feci questa scoperta, sebbene in se non avesse tutta questa importanza, mi resi conto che in ognuno di noi poteva accadere esattamente la stessa cosa. La grande differenza sta nel fatto che, nel caso di noi esseri umani, la scoperta di un oasi nel proprio deserto non è in grado di farla solo un soggetto esterno, come nel caso di un cortile, bensì siamo noi in prima persona ad avere questa capacità. Siamo noi gli archeologi che portano a casa i risultati migliori, perlustrando la nostra stessa interiorità.