Jules

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martedì 14 gennaio 2014

La micro machine che c'è in noi



E’ incredibile come a volte le persone possano essere paragonate ad oggetti inanimati. Le caratteristiche che li diversificano, è inutile dire che rappresentano la maggioranza, ma ce ne sono altre in comune che li rendono molto simili. Solo un occhio molto attento, e in quel momento dotato di elevate capacità introspettive  può essere in grado di notarle. Oppure lo sguardo curioso di una persona che riconosce in un oggetto, un determinato aspetto che sta ospitando, o che ha ospitato dentro di sé in prima persona per un certo periodo. Io rientro in quest’ultima categoria. Per fortuna posso dire che ormai il mio ospite indesiderato, è stato sfrattato già da un po’ di tempo, dopo un lungo periodo di attesa che ha avuto inizio il giorno in cui ricevette la mia lettera di preavviso. Il tutto è avvenuto all’interno della mia mente, dal momento in cui lo smascherai e lo riconobbi per la sua vera natura. Non si trattava di un ospite, bensì di un criminale in fuga, che usò il mio corpo come nascondiglio, padroneggiando e influenzando la mia volontà di agire a suo favore. Un vero e proprio carceriere insomma. Fui anche vittima della sindrome di Stoccolma. Mi legai molto all’orco che mi teneva in ostaggio. Dopo un po’ divenne una sicurezza, un alibi che giustificasse i miei errori, una scusa per non vivere fino in fondo. Mi viene in mente il film “Cuore cattivo”, in cui Kim Rossi Stuart interpretava la parte di un deliquente cocainomane, che teneva in ostaggio una giovane ragazza paraplegica nel suo stesso appartamento, con lo scopo di nascondersi dalla polizia. Purtroppo però il mio carceriere non si trattava affatto del bel Kim. Ho iniziato a riflettere su questo argomento l’altro giorno, imbattendomi in un vecchio giocattolo di quando ero bambina. Si tratta di una di quelle macchinine a retrocarica, e ho riscontrato un netto parallelismo fra il meccanismo che permette ad essa di muoversi e proseguire nel suo breve percorso, e quello che per anni mi ha accompagnata lungo il mio di percorso, quello di crescita, conducendomi verso l’età adulta. Le macchinine a retrocarica devono essere spinte a mano in retromarcia per accumulare potenziale energia elastica. Una volta mollata la presa essa si trasforma in energia cinetica, che permette loro di schizzare in avanti ad una velocità anche piuttosto elevata, a seconda della durata della ricarica. Io ho subìto un processo molto simile. Per tutti gli anni dell’adolescenza, una serie di forze negative agirono come una mano invisibile che mi spingeva all’indietro, nonostante io opponessi resistenza spingendo in avanti. Questo lungo periodo di stasi, durato anni, mi fece accumulare un’enorme quantità di energia che al momento non avrei potuto sfruttare. All'alba dell'età adulta queste forze incominciarono ad allentare la presa, e dal momento in cui decisero di abbandonarmi definitivamente, intorno ai vent'anni, tutta l’energia accumulata esplose. Questa esplosione provocò conseguenze negative non indifferenti, come si può ben immaginare. Sono schizzata in avanti come una scheggia, senza alcun controllo, senza avere la possibilità di frenare. Se si prosegue ad una velocità così elevata evitare gli ostacoli risulta impossibile. Quando incontrai il primo ci finii inevitabilmente spiattellata contro, come marmellata spalmata su un toast, e per riprendermi ci volle un bel po’ di tempo. Una volta rialzata ripartii a razzo, l’energia accumulata sembrava quasi inesauribile e di conseguenza andai a sbattere contro il secondo ostacolo. E po’ il terzo, il quarto, il quinto, finchè un giorno tutta quella carica non incominciò ad esaurirsi. Gli ostacoli risultarono sempre più facili da evitare e da riconoscere in lontananza. Le ferite di tutte le cadute precedenti, nel frattempo, si fecero ancora sentire, alcune di più altre di meno. La visione appannata provocata dall’elevata velocità venne sostituita da una molto più nitida. Il respiro affannoso e il cuore in gola, tipici sintomi che si riscontrano durante un giro sulle montagne russe, finalmente cessarono. Ascoltare i consigli e captare i segnali di chi mi stava attorno, divenne un’operazione molto più semplice grazie ad una velocità più moderata. Finalmente incominciai ad essere presente, ad avere le basi per avere la situazione sotto controllo e per stare sul pezzo. Pian piano sulla macchinina a retrocarica iniziò a svilupparsi un motore. Zitto zitto, quatto quatto, si preparava a venire alla luce.

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