Lunedì scorso, 3 febbraio 2014, è stato l’ultimo giorno del
corso di scrittura creativa tenuto dal professore Cosimo Argentina. E’ stata
un’esperienza che mi ha arricchita molto ed è andata al di là delle mie
aspettative. Non avevo mai frequentato un corso di questo tipo prima, quindi
accettai di iscrivermi a scatola chiusa, in fondo sentivo che di sicuro non
avrei avuto nulla da perdere, semmai il contrario. Inizialmente fantasticai su
come potesse svolgersi una lezione tipo. Immaginai molte spiegazioni teoriche,
utili certo, ma che avrebbero tolto la possibilità ad ogni singolo iscritto di
farsi conoscere per come si diletta concretamente, nell’intimità della propria
stanza con penna, foglio o portatile. Con mia grande sorpresa, nella realtà dei
fatti non è andata proprio così. Le lezioni sono state per me quasi delle
sedute psicoanalitiche di gruppo, nelle quali tutti hanno giocato a carte
scoperte, e hanno condiviso le proprie evacuazioni su carta senza imbarazzo e
senza paura del giudizio dell’altro. Cosimo è riuscito a mettere in luce le
qualità, lo stile e i difetti di ognuno di noi facendo critiche più che
costruttive. Insomma, se qualcuno mi chiedesse consiglio su un corso di
scrittura creativa saprei di certo dove indirizzarli, ad occhi chiusi. Per
definire questo percorso in due parole mi viene in mente un ossimoro: “Anarchia ordinata”: ognuno ha sempre avuto
la libertà di dire e scrivere ciò che preferiva, e come succede in rari casi,
questa volta il libero arbitrio di ciascuno non ha mai cozzato con quello degli
altri, anzi, sono sempre andati tutti a braccetto, a passo di danza, a ritmo di
can can oserei dire. Ma visto che quest’esperienza è ormai finita e ci rimane
solo l’immancabile pizzata finale alla quale (stranamente devo ammetterlo) parteciperò
volentieri, ho riflettuto sulla fine di
qualsiasi percorso in generale, esperienza che nel corso delle nostre vite ci
ritroviamo spesso ad affrontare. Nel caso in cui non vedessimo l’ora che una
certa esperienza finisca, allora il problema non si porrebbe nemmeno. La sua
conclusione in questo caso non può che corrispondere ad un senso di liberazione
da una zavorra, che fungeva solo da inutile ingombro. Se invece al contrario è
stato qualcosa di positivo e che ci ha particolarmente colpiti, affrontarne la
fine potrebbe essere anche un bel boccone amaro e doloroso da buttar giù, o se
vogliamo essere meno melodrammatici, potrebbe lasciarci quel tipico senso di
agrodolce malinconia, quel misto di gioia, tristezza e smarrimento che spiazza
sempre un po’. C’è da dire che per fortuna molte di queste “ultime volte” non
le viviamo consapevolmente. Apprenderemo la lieta novella solo successivamente,
vivendo, e di sicuro il tutto sarà molto meno traumatico rispetto ad una fine
vissuta in maniera consapevole. Ad esempio quando mi ritrovo a leggere l’ultima
facciata di un libro che ho amato, provo sempre uno strano vuoto allo stomaco
che mi lascia per qualche minuto col fiato sospeso, e in un certo senso mi
commuove. Il giorno in cui la mia migliore amica di infanzia mi disse che si
sarebbe trasferita a breve in Sicilia, mi resi conto che un percorso stava per
concludersi, e provai un senso di smarrimento improvviso, una pericolosa
perdita di equilibrio, come in preda ad un attacco di labirintite acuta sulle
scale a chiocciola della Sagrada Familia. Il giorno in cui il mio terapeuta mi
disse che potevo continuare a “camminare” da sola e che addirittura avrei
potuto aiutare io stesso qualcun altro, mi sentii commossa, grata, gioiosa,
spaventata, orgogliosa e smarrita allo stesso tempo. Ero anche triste perché
adoravo quell’ora passata con lui, ne avrei di sicuro sentito la mancanza. Al
momento dell’annuncio le lacrime agli occhi sono state inevitabili. Per non
sembrare troppo patetica ho dovuto aspettare la fine della seduta per tornare
nella mia auto e scoppiare in un pianto liberatorio. Oppure il giorno del
rientro da un viaggio di cui ho goduto ogni singolo istante o quasi. Di norma
appena varcata la soglia di casa tutto mi appare uguale ma allo stesso tempo
molto diverso da come lo avevo lasciato. Come se tutto fosse filtrato da ciò
che di nuovo ho visto, annusato, assaporato e udito. Poi senza che me ne
accorga, quella particolare lente incomincia a consumarsi e dopo qualche giorno
si stacca del tutto, come un cordone ombelicale. Ciò che ne rimane è solo il
ricordo, un’ esperienza in più da inserire nel curriculum da presentare a me
stessa.
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