Jules

Jules

martedì 4 febbraio 2014

Tragimanicomico



“Sai? Mi capita di pensare a quanto sarebbe bello essere malati di testa, anche solo per un giorno…” avrei voluto dire a Max, uno dei ricoverati del centro psicosociale che da quasi un anno frequentavo ogni giovedì. Lo vedevo quasi ogni volta, seduto su una panchina, fumando una sigaretta. Sembrava vagare senza meta, senza obiettivi, senza progetti e senza ansie. Il suo sguardo era perso, ma privo di quell’alone di drammatico pessimismo che spesso noto su molti volti in metropolitana. Sembrava quasi che in quell’istante immaginasse di trovarsi a piedi scalzi su un bagnasciuga, contando le stelle cadenti la notte di S.Lorenzo. Ogni volta che lo incrociavo mi salutava con un ampio sorriso: “Salve signorina, come sta?” Io avrei voluto rispondere: “Molto peggio di lei mi sa, visto che sono a conoscenza di tutti i particolari di ogni metastasi che macchia la mia potenziale serenità” ma mi sono sempre limitata ad un semplice: “Bene, grazie, spero stia passando una bella giornata!” Che forte che era Max, riusciva sempre a strapparmi un sorriso, qualunque fosse il mio stato d’animo. La sua lungimiranza gli permetteva al massimo di immaginare che da lì a due minuti avrebbe pestato il mozzicone con la scarpa. Lui non viveva alla giornata, bensì alla mezz’ora, se andava bene. Chissà com’era essere nei suoi panni per un giorno intero. Chissà cosa avrebbe fatto una volta finita quella sigaretta o a cosa pensava prima di addormentarsi. So che ragionandoci anche solo per un attimo appare come un’assurdità, ma devo proprio ammettere che più di una volta l’ho invidiato. Che bello sarebbe essere dichiarati incapaci di intendere e di volere, beccarsi una bella interdizione, non essere più responsabili delle proprie scelte e delle proprie azioni. Nessuno che ti viene a rompere le palle per le tue eventuali negligenze. Aaaah…che liberazione! Tanto saresti comunque solo, esiliato in un tuo mondo, mentre ognuno giustamente è intendo a pensare ai propri cazzi e controcazzi. I ricoverati vivono esattamente questa stessa condizione, ma alla luce del sole. Non ci sono studio, lavoro e aperitivi che tengano. Sei lì, completamente privo delle redini che a noi “liberi” e “sani” vengono concesse per farci sopportare meglio il peso della quotidianeità, e per farci sentire talvolta membri dello stesso equipaggio. Mentre tutto ciò si stava verificando (come anche ora e per sempre) io facevo il mio ingresso in quel tetro cortile, che sembrava nato da una colata di cemento non lavorata. La fiera del pressapochismo insomma. Le auto del personale erano parcheggiate in maniera approssimativa lungo un vialetto approssimativo percorso da gente altrettanto approssimativa. Mamma mia, proprio un bel quadretto. Che tristezza quel luogo, così squallido nella sua impersonalità, non rispecchiava affatto gli individui che lo popolavano. Ricoverati e pazienti in libertà vigilata, tutti vi entravano carichi del proprio vissuto sul groppone, intenti a mostrarlo e a stenderlo cercando di stirare ogni singola piega che andava a formarsi agli angoli. Un giorno ero in attesa in quel solito atrio, non sapendo cosa fare incominciai a concetrare la mia attenzione sull’odore che aleggiava nell’aria. Si trattava di sicuro del detergente per i pavimenti. Adoravo quel profumo. Avevo quasi voglia di mettermi a gattoni per poter verificarne la fonte annusando direttamente a terra.  “In questo posto nessuno rimarrebbe perplesso più di tanto”, pensai. Dopo aver abbandonato quest’idea bizzarra, decisi di guardarmi attorno e in fondo al corridoio notai una porta a vetri. Andai verso quella direzione, ero troppo curiosa di scoprire cosa ci fosse al di là di essa e colta da un forte senso di stupore, vidi un giardino ben curato, di un verde intenso. Era del tutto imparagonabile al grigiore sconfinato del cortile principale, quello che tutti potevano intravedere anche dall’esterno. Fu allora che la realtà delle cose mi fu molto più chiara. In realtà tutta la struttura del centro rispecchiava esattamente le persone che lo frequentavano. All’inizio vi si entra con un’aria cupa, confusa, oberati di qualcosa che non si sa bene cosa sia, ma che soffoca la propria vera natura. In quel momento ci si presenta come individui impersonali o tristi o incompleti, o un mix di tutto questo, proprio come il centro nella sua facciata. Poi, una volta scavata a fondo la propria interiorità, si incomincia ad intravedere il suo aspetto unico, curato, consapevole e speranzoso. Proprio come è successo a me perlustrando il centro più nel dettaglio. I primi tempi, non avrei mai immaginato che nella parte posteriore ci potesse essere un giardino così ben tenuto. Appena feci questa scoperta, sebbene in se non avesse tutta questa importanza, mi resi conto che in ognuno di noi poteva accadere esattamente la stessa cosa. La grande differenza sta nel fatto che, nel caso di noi esseri umani, la scoperta di un oasi nel proprio deserto non è in grado di farla solo un soggetto esterno, come nel caso di un cortile, bensì siamo noi in prima persona ad avere questa capacità. Siamo noi gli archeologi che portano a casa i risultati migliori, perlustrando la nostra stessa interiorità.

4 commenti:

  1. ciao,
    complimenti, mi è paiciuto molto.
    il pesante pessimismo inizale lascia il posto nelle uiltimissime righe alla riflessione che vede ogni essere umano impegnato nel compito per lui piu' duiffcile e importate:la ricerca di se stessi.

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    1. Grazie mille! Piaciuta la metafora dei due cortili?

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