“Sai? Mi capita di pensare a quanto sarebbe bello essere malati
di testa, anche solo per un giorno…” avrei voluto dire a Max, uno dei
ricoverati del centro psicosociale che da quasi un anno frequentavo ogni
giovedì. Lo vedevo quasi ogni volta, seduto su una panchina, fumando una
sigaretta. Sembrava vagare senza meta, senza obiettivi, senza progetti e senza
ansie. Il suo sguardo era perso, ma privo di quell’alone di drammatico
pessimismo che spesso noto su molti volti in metropolitana. Sembrava quasi che
in quell’istante immaginasse di trovarsi a piedi scalzi su un bagnasciuga,
contando le stelle cadenti la notte di S.Lorenzo. Ogni volta che lo incrociavo
mi salutava con un ampio sorriso: “Salve signorina, come sta?” Io avrei voluto
rispondere: “Molto peggio di lei mi sa, visto che sono a conoscenza di tutti i
particolari di ogni metastasi che macchia la mia potenziale serenità” ma mi
sono sempre limitata ad un semplice: “Bene, grazie, spero stia passando una
bella giornata!” Che forte che era Max, riusciva sempre a strapparmi un
sorriso, qualunque fosse il mio stato d’animo. La sua lungimiranza gli
permetteva al massimo di immaginare che da lì a due minuti avrebbe pestato il
mozzicone con la scarpa. Lui non viveva alla giornata, bensì alla mezz’ora, se
andava bene. Chissà com’era essere nei suoi panni per un giorno intero. Chissà
cosa avrebbe fatto una volta finita quella sigaretta o a cosa pensava prima di
addormentarsi. So che ragionandoci anche solo per un attimo appare come un’assurdità,
ma devo proprio ammettere che più di una volta l’ho invidiato. Che bello
sarebbe essere dichiarati incapaci di intendere e di volere, beccarsi una bella
interdizione, non essere più responsabili delle proprie scelte e delle proprie
azioni. Nessuno che ti viene a rompere le palle per le tue eventuali
negligenze. Aaaah…che liberazione! Tanto saresti comunque solo, esiliato in un
tuo mondo, mentre ognuno giustamente è intendo a pensare ai propri cazzi e
controcazzi. I ricoverati vivono esattamente questa stessa condizione, ma alla
luce del sole. Non ci sono studio, lavoro e aperitivi che tengano. Sei lì,
completamente privo delle redini che a noi “liberi” e “sani” vengono concesse
per farci sopportare meglio il peso della quotidianeità, e per farci sentire
talvolta membri dello stesso equipaggio. Mentre tutto ciò si stava verificando
(come anche ora e per sempre) io facevo il mio ingresso in quel tetro cortile,
che sembrava nato da una colata di cemento non lavorata. La fiera del
pressapochismo insomma. Le auto del personale erano parcheggiate in maniera
approssimativa lungo un vialetto approssimativo percorso da gente altrettanto
approssimativa. Mamma mia, proprio un bel quadretto. Che tristezza quel luogo,
così squallido nella sua impersonalità, non rispecchiava affatto gli individui
che lo popolavano. Ricoverati e pazienti in libertà vigilata, tutti vi
entravano carichi del proprio vissuto sul groppone, intenti a mostrarlo e a
stenderlo cercando di stirare ogni singola piega che andava a formarsi agli
angoli. Un giorno ero in attesa in quel solito atrio, non sapendo cosa fare
incominciai a concetrare la mia attenzione sull’odore che aleggiava nell’aria.
Si trattava di sicuro del detergente per i pavimenti. Adoravo quel profumo.
Avevo quasi voglia di mettermi a gattoni per poter verificarne la fonte
annusando direttamente a terra. “In
questo posto nessuno rimarrebbe perplesso più di tanto”, pensai. Dopo aver
abbandonato quest’idea bizzarra, decisi di guardarmi attorno e in fondo al
corridoio notai una porta a vetri. Andai verso quella direzione, ero troppo
curiosa di scoprire cosa ci fosse al di là di essa e colta da un forte senso di
stupore, vidi un giardino ben curato, di un verde intenso. Era del tutto
imparagonabile al grigiore sconfinato del cortile principale, quello che tutti
potevano intravedere anche dall’esterno. Fu allora che la realtà delle cose mi
fu molto più chiara. In realtà tutta la struttura del centro rispecchiava
esattamente le persone che lo frequentavano. All’inizio vi si entra con un’aria
cupa, confusa, oberati di qualcosa che non si sa bene cosa sia, ma che soffoca
la propria vera natura. In quel momento ci si presenta come individui
impersonali o tristi o incompleti, o un mix di tutto questo, proprio come il
centro nella sua facciata. Poi, una volta scavata a fondo la propria interiorità,
si incomincia ad intravedere il suo aspetto unico, curato, consapevole e
speranzoso. Proprio come è successo a me perlustrando il centro più nel
dettaglio. I primi tempi, non avrei mai immaginato che nella parte posteriore ci
potesse essere un giardino così ben tenuto. Appena feci questa scoperta,
sebbene in se non avesse tutta questa importanza, mi resi conto che in ognuno
di noi poteva accadere esattamente la stessa cosa. La grande differenza sta nel
fatto che, nel caso di noi esseri umani, la scoperta di un oasi nel proprio
deserto non è in grado di farla solo un soggetto esterno, come nel caso di un
cortile, bensì siamo noi in prima persona ad avere questa capacità. Siamo noi
gli archeologi che portano a casa i risultati migliori, perlustrando la nostra
stessa interiorità.